Ogni giorno Emanuela Evangelista, biologa romana, classe 1968, per raggiungere il centro del villaggio prende la canoa e risale un tratto del fiume Jauaperi, un subaffluente del Rio delle Amazzoni. Da 24 anni vive nella foresta amazzonica più impenetrabile. Abita in una palafitta dal tetto di paglia in una comunità riberinha (sulla riva di un fiume) di caboclos, popolazione mista indigena, africana ed europea, nello Stato brasiliano di Amazonas, insieme al suo compagno, nipote del fondatore del villaggio. Quindici famiglie in tutto, a 400 km e 48 ore di navigazione da Manaus, la città più vicina. "Una scelta fatta per amore", dice. Per il compagno e per queste terre bellissime e difficili. Vent’anni fa ha fondato Amazônia onlus per preservare la foresta e aiutare le popolazioni locali, tra le più povere del Paese, e grazie alla sua esperienza è stata chiamata a partecipare al progetto Together we plant the future, lanciato dal leader italiano della carta tissue Sofidel (quello dei rotoloni Regina) e dal colosso brasiliano Suzano, primo produttore mondiale di polpa di cellulosa. Un’operazione su larga scala per proteggere il bioma amazzonico creando “corridoi di biodiversità” e sostenere le comunità che vi abitano. Evangelista sarà in Italia in ottobre per partecipare al festival Pianeta Terra di Lucca diretto da Stefano Mancuso (5-8 ottobre), ma per il momento è ancora nella sua casa in mezzo alla foresta dove la raggiungiamo via WhatsApp.

Cosa significa creare corridoi di biodiversità nella foresta?

Per spiegarlo devo fare una premessa: non esiste una sola Amazzonia, ma almeno quattro: quella forestale dove mi trovo io, l’area urbana delle città, quella sotto pressione per la deforestazione e, infine, l’Amazzonia “convertita”, ai confini del Cerrado, un ecosistema con maggiore presenza umana e agricola, ed è qui, tra il Para e il Maranhão, che si va a intervenire. Per legge i proprietari terrieri sono tenuti a mantenere intatta parte degli alberi, ma l’habitat così spezzettato, tra aree protette e deforestate, non riesce a supportare la sopravvivenza di molte piante e animali, specie quelli di grossa taglia come il giaguaro che si muove in spazi enormi. Il progetto collegherà questi frammenti di foresta interrotta tramite, appunto, i corridoi di biodiversità, per creare un’area continua di 2.200 kmq.

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COLLART Hervé//Getty Images

In che modo sono coinvolte le popolazioni locali?

L'obiettivo è trasformarle in custodi della foresta che, una volta restaurata, diventerà più produttiva garantendo loro un maggior reddito grazie all’agroforestazione, una tecnica che ne imita i processi naturali incrementando la crescita di piante selvatiche come le bacche di açaì o il cocco babassu, valide alternative alle monoculture. È una forma di bioeconomia, l’unica possibilità di salvezza per l’Amazzonia secondo il mondo scientifico. La lotta alla povertà è sempre correlata alla salvaguardia della biodiversità, perché la carenza di cibo spinge ad abusare dell’ambiente. In più, in questo modo si contrasta l’esodo dei giovani verso le grandi città: si spostano per una vita migliore, che non trovano mai.

Qual è il ruolo della sua onlus nel progetto?

«Noi facciamo da intermediari e supportiamo la comunicazione. Un’altra ong, l’Istituto brasiliano di sostenibilità, invece, dialoga direttamente con le 17 associazioni e cooperative locali coinvolte».

Cosa l’ha portata per la prima volta in Amazzonia?

Una lontra gigante. Studiavo alla Sapienza, e questa specie era a rischio d’estinzione per via della pelliccia. Seguendo le sue tracce ho raggiunto zone sempre più remote, abitate da popolazioni tradizionali. Mi sono resa conto che proteggere gli animali non basta, occorre preservare l’habitat e salvaguardare le culture locali. Per anni ho fatto la pendolare tra Italia e Brasile, poi il lavoro è aumentato, mi sono innamorata e ho deciso di fermarmi qui.

Com’è una sua giornata tipo?

Non ho figli, ma sto ospitando due bambini di 9 e 10 anni che sono venuti da un villaggio vicino per frequentare la nostra scuola, l’unica nel raggio di km, quindi la mattina li accompagno a scuola in canoa. Ci metto 30 minuti attraverso la foresta allagata. Quindi torno a casa e lavoro al computer grazie alla connessione satellitare, fino all'ora di andare a prenderli.

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Raffaello Pellizzon

Vivere nella foresta implica la rinuncia a molti comfort...

È un aspetto della quotidianità: parte del tempo se ne va nella preparazione del cibo che mi procura il cacciatore, dato che il supermercato più vicino è a Manaus, dove si trova anche l’ospedale. La pompa mi porta l’acqua in casa, ma per il bucato e per lavarsi si va al fiume, a volta in compagnia di un caimano.

Un caimano? Non è pericoloso?

Ci conviviamo. Basta fare attenzione se si sta pulendo il pesce.

Il suo compagno ha sempre vissuto in Amazzonia, lei viene dall’Italia. Quanto è complicato andare d’accordo?

Il nostro è un incontro tra due culture molto diverse che a volte si scontrano, altre si integrano. Non è facile, ci sono dei momenti in cui bisogna guardarsi negli occhi e dirsi: “Fermi tutti, questa non è una discussione personale tra me e te, ma tra due mondi che provano a convivere”. È importante ammettere che ci sono cose più grandi di noi, è un’intermediazione culturale costante.

L’ha mai accompagnata in Italia?

Due volte. Ho portato spesso nativi amazzonici in Europa e quasi tutti, compreso Francisco, uscivano dalla foresta per la prima volta. Non avevano mai visto un aeroporto, il mare, la neve, eppure sono rimasti solidi e centrati sulla convinzione che la loro vita è migliore. A chi gli chiedeva se fosse scioccato di trovarsi in Italia, un leader indigeno rispose che ci vedeva vivere chiusi in una scatola per uscire solo per entrare in un’altra scatola con le ruote. “Non mi sembra una prospettiva attraente”, concluse.

In Brasile i popoli originari sono stati a lungo discriminati, ora hanno un ministero e una ministra, Sonia Guajajara...

È così, non avevano diritto di voto e non erano nemmeno considerati esseri umani: fino a non molti anni fa, uccidere un indigeno non era reato! Ora con il presidente Lula c’è grande speranza, ma il Marco Temporal (proposta di legge che ostacola il riconoscimento delle terre indigene in discussione al Congresso dove la coalizione di Lula è in minoranza, ndr) preoccupa; ieri nella nostra scuola c’è stata una manifestazione, i bambini si sono dipinti.

Nel suo villaggio ci sono problemi con gli invasori di terre?

No, ma a qualche centinaio di km in linea d’aria c’è la riserva degli Yanomani dove la scoperta di giacimenti d’oro ha attirato molti garimpeiros, minatori illegali, e la situazione è allarmante. Dietro le invasioni, poi, c’è sempre il narcotraffico, che da 5 anni è presente in tutte le attività illegali in Amazzonia: deforestazione, traffico di specie animali protette, estrazione illegale di metalli e pietre preziose. Il confine con la Colombia è vicino e la tratta della droga gestita dai narcos amazzonici della Familia do Norte passa di qui.

Per estrarre l’oro i garimperos usano sostanze inquinanti.

L’estrazione dell’oro è sempre un male; quella artigianale illegale per separare il minerale dalla terra usa il mercurio, che inquina le acque e finisce nella catena alimentare fino al consumatore finale, l’uomo, mentre quella industriale utilizza il cianuro, che avvelena l’ambiente. Quando qualcuno mi chiede cosa può fare in concreto per aiutare l’Amazzonia rispondo: smettete di comprare gioielli e oggetti d’oro, consumate meno carne e non cambiate spesso il cellulare, che è composto anche di cassiterite, un altro minerale estratto nella riserva Yanomani.